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Ezio Vendrame, la solitudine del funambolo

Redazione
Ezio Vendrame

Sono passati cinque anni, era il 4 aprile del 2020, dalla scomparsa di Ezio Vendrame, spesso conosciuto come il “George Best” italiano.

Nato nel 1947 a Casarsa della Delizia, paese natale di Pier Paolo Pasolini, incarna per uno strano gioco tra vita e letteratura quel candore, delle volte spietato, tipico dell’umanità relegata ai margini nell’Italia del boom economico degli anni ’60, protagonista in molte opere dell’intellettuale friulano.

“Perchè a me piaceva da matti giocare al calcio. Quello che non mi piaceva era fare il calciatore”

In questa frase pronunciata da Ezio Vendrame è tutto il peso di una scelta consapevole, quella di vivere come uomo ancor prima che da calciatore. La sua carriera da professionista, con le maglie di Spal, Lanerossi Vicenza, Napoli e Padova, è stato un peregrinare esistenziale più che sportivo, al modo di quello della beat generation raccontata da Jack Kerouac e Allan Ginsberg, del quale lui possedeva attitudine e phisique du role, con quella barba e i capelli lunghi a evidenziarne la fiera riluttanza a qualsiasi conformismo.

La sua iniziazione alla “farabutta vita” inizia a 7 anni, quando i genitori, incapaci di provvedere al suo sostentamento, ne affidano il destino alle cure di un collegio ecclesiastico, parola “tenera” che nasconde le durezze e gli abusi che si consumano tra le sue mura. Una esperienza segnante che gli procura un’ istintiva diffidenza verso i benpensanti e un disperato bisogno di amare. Conosciute da giovane calciatore le gioie della carne che poco però si conciliano con la disciplina richiesta a un professionista, tra le due possibilità lui non ha mai avuto alcun dubbio su quale sacrificare.

A novanta gradi mi ci metto solo per amore”

“Ho portato a letto centinaia di donne! Ma giuro le ho amate tutte quante. Non ho mai fatto l’amore senza sentimento”, per lui le donne non sono un corollario narcisistico, ma il vero termine di congiunzione e realizzazione dell’uomo, il suo personale esorcismo alla malignità del mondo circostante.

Ospite di una trasmissione televisiva nei primi anni ’90, si rese protagonista di un acceso confronto con Gianni Di Marzio e, a sottolineare la sua integrità rispetto a un sistema calcio fraudolento, ripeté a gran voce: “a novanta gradi mi ci metto solo per amore”.

E in effetti la sua passione per le donne gli è sempre costata cara: ai tempi della Spal nei primi anni ’70, l’amore per Roberta, una giovane prostituta, gli costa il trasferimento alla Torres, alla stregua dei detenuti nel carcere speciale dell’Asinara.

Nella stagione 1974-1975 arriva l’occasione di una vita, il Napoli del presidente Corrado Ferlaino e allenato da Luis Vinicio, che da principale sponsor del suo arrivo in azzurro si stanca presto dell’irregolarità dentro e fuori dal campo del friulano, relegandolo più vicino agli spalti che alla panchina. In occasione di Cagliari-Napoli, viene spedito in tribuna, punito per il suo flirtare con una ragazza, per la quale si vocifera lo stesso Vinicio nutrisse un interesse, con cui consumerà un rapporto proprio nei bagni dello stadio Sant’Elia. Da questo episodio trasse il titolo il libro Se mi mandi in tribuna godo” edito nel 2002, una summa del Vendrame pensiero, un memoriale personale e collettivo dell’Italia degli anni ’70.

“Il gol è la morte del calcio, l’assist la superba noncuranza di se stessi”

Pochissimi i gol realizzati, Ezio Vendrame è stato un esteta e un amante del gesto, anche fine a se stesso.

Prima di Vanden Borre e, più recentemente, Memphis Depay con la maglia del Corinthians, fu lui a salire con entrambi i piedi sul pallone posizionando la mano a taglio sulla fronte, allegoria della sua visione unica e privilegiata rispetto al resto del mondo. Istrionico e canzonatorio come in occasione di Padova-Cremonese, con le due squadre concordi nel terminare in parità e lui, intenzionato a svegliare i tifosi sonnecchianti, che inizia a dribblare tutti i compagni di squadra, portiere incluso, fermarsi con il pallone sulla linea di porta, salvo poi tornare verso il centrocampo tra l’incredulità di compagni, avversari e pubblico.

Una giocata da indiano metropolitano, al grido di una risata vi seppellirà, e la leggenda vuole che un povero spettatore quel pomeriggio allo Stadio Appiani di Padova ci lasciò davvero le penne, colto da infarto, con Ezio Vendrame che venuto a conoscenza del fatto disse che i deboli di cuore non potevano assistere alle sue partite, a meno che non fossero mossi da volontà suicide.

Ezio Vendrame, la solitudine del funambolo

L’aneddotica sterminata, alimentata dalla narrazione prevalentemente orale e scritta del calcio sino agli anni ’80, riflette l’eccessività dell’uomo: la grandiosità della sua leggenda contrapposta alla piccola provincia teatro delle sue imprese; il talento illimitato mai piegato alla contingenza effimera del risultato; l’affetto suscitato nei tifosi a volte inversamente proporzionale al minutaggio in campo.

Ezio Vendrame a Napoli giocò solo tre spezzoni di partita per un totale di 64 minuti, eppure 80000 partenopei accorsero al San Paolo solo per vedere allenarsi quell’eccentrico fantasista dribblomane e naif.

In occasione di un Padova-Udinese di Serie C, con i friulani bisognosi di un punto per la promozione in B, accettò prima di giocare male in cambio di sette milioni lire (il premio partita era allora di quarantamila lire!), salvo poi ricredersi, decidendo di sfidare apertamente i tifosi avversari impegnati a insultarlo, annunciando una rete direttamente da calcio d’angolo che puntualmente realizzò, dopo essersi soffiato il naso sulla bandierina del corner.

Dio e clown, come ne scrisse Giancarlo Dotto, la cui smisurata strafottenza conobbe un rigurgito di riverenza solo di fronte a Gianni Rivera, a cui chiese scusa dopo averlo buggerato con un tunnel a San Siro che aveva il gusto del parricidio calcistico.

Bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante, la poesia e l’amicizia con Piero Ciampi

Oscillante tra il Nietschze legislatore di una nuova morale e l’indolenza dei protagonisti dei romanzi di Piero Chiara, Ezio Vendrame trovò nell’artista livornese Piero Ciampi, il fratello che mai ebbe.

Dissipatore e incapace di conformarsi come lui, arriva a fermare il gioco nel bel mezzo di un match del Padova solo per andare ad omaggiare l’amico poeta seduto tra gli spalti.

Terminata la carriera da calciatore con una squalifica, poi amnistiata in seguito alla vittoria dei Mondiali del 1982, per avere strappato di mano i cartellini e il fischietto all’arbitro gettandoli tra gli spalti, proverà ad allenare nelle giovanili del Venezia, lasciando anzitempo per un litigio con Zaccheroni che voleva imporgli il figlio del magazziniere in rosa, e poi per la gravità dei genitori responsabili delle precoci frustrazioni dei figli, ci vorrebbe una squadra di soli orfani diceva.

Nelle sue sporadiche apparizioni televisive non mancava di essere sulfureo e spigoloso, sconfinando a volte nell’offesa, con i suoi bersagli. Nel prima ricordato Se mi mandi in tribuna, godo” ricorda così un suo acceso scambio di vedute con Aldo Agroppi:

“Stagione calcistica 1972/73. Il Vicenza aveva battuto in casa il Torino per 1-0. Per tutta la gara ero stato marcato da Aldo Agroppi ed il giorno dopo, nelle pagine del Gazzettino, Giorgio Lago mi diede il massimo dei voti: 10 (forse avevo giocato benino!). Ironie della sorte, a carriera ormai conclusa, Gianni Minà mi invitò alla Domenica Sportiva dove Agroppi mi accolse con questo elogio: “Io con i piedi di Ezio, lui con la mia testa: ecco il fuoriclasse assoluto!”. “Io, invece di incassare l’omaggio e ringraziarlo, lo freddai con la mia replica: ti regalo volentieri i miei piedi, ma la mia testa non la cambio con nessuno, tantomeno con te!”.

Ezio Vendrame, la solitudine del funambolo

Biscardi, Matarrese e anche una certa scuola di allenatori-stregoni sorta nei primi anni ’90 erano i target ricorrenti delle sue invettive verbali. Tornò sugli schermi in un programma culto dei primi anni 2000, “Lo sciagurato Egidio”, dove calcio e letteratura si confondevano sublimemente, condotto da Giorgio Porrà e Gianluca Vialli.

Dalla foschia oscura della provincia veneta alle luci accecanti del Festival di Sanremo, nel 2005 quando Bonolis lo volle come opinionista, rendendosi autore di un’attacco frontale, e gratuito, nei confronti di Gigi D’Alessio, reo a suo dire di essersi mostrato compiacente nei confronti del conduttore con il fine di accattivarsi le simpatie del pubblico.

Iconoclasta, le orecchie del mainstream non erano fatte per le sue parole e il pubblico dell’Ariston iniziò a fischiarlo, e lui in questo trovò una conferma della sua ragione come quando era in campo e i tifosi avversari lo insultavano.

Negli ultimi anni tornò vicino i bordi nel campo della vita, come quando sul rettangolo verde si rifugiava in prossimità della linea del fallo laterale, dove la tiepida ombra gli dava riparo sicuro dal sole battente, lì a inseguirlo come i preti che da bambino infierivano con le punizioni corporali in orfanotrofio.

Diede appuntamento al giornalista Gianni Mura, in un tardo pomeriggio di dicembre sulla tomba di Pier Paolo Pasolini definendolo: ”il più vivo tra gli abitanti del mio paese”.

Come il Giovane Holden di Salinger se ne è andato nel silenzio il 4 aprile del 2020, congedandosi dal chiasso di un mondo ostaggio di un nemico sconosciuto, in un ideale ritorno alla solitudine, lontano dal mondo degli impostori e fasulli ai quali è sempre rifuggito con dribbling e poesia.

Farabutta vita /costretto a resisterti tra follie umane / ed imperfetti amori, sotto squarci di nuvole /il sangue va oltre il sangue /ed incrostato di abusi /altro non so che infestarti di amaro le carni

                                                                                                                                  Ezio Vendrame

 

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