Carlos Humberto Paredes, da Mourinho a Cesare Maldini. “La Reggina è troppo speciale per me, la vera forza era lo spogliatoio. Paraguay? Indimenticabile la vittoria contro la Nigeria. Luis Cubilla fondamentale per la formazione calcistica” – ESCLUSIVA EC

Carlos Humberto Paredes era tutto garra e toque con un amore incondizionato per la Reggina. “Stavamo preparando il Mondiale del 2002 e Cesare Maldini mi chiese se mi sarebbe piaciuto giocare in Italia. Io gli dissi subito di sì. Poi Mendes, che era il mio agente, e Foti, all’epoca Presidente della Reggina, lavorarono al mio trasferimento in maglia amaranto”, ha spiegato Carlos Humberto Paredes in esclusiva ai microfoni di EuropaCalcio.it.
Paredes e Mourinho, l’ex centrocampista paraguayano ha svelato un particolare aneddoto del tecnico portoghese: “Ricorderò per sempre le parole di Mourinho, mi ripeteva che bisogna essere competitivi in qualunque cosa si faccia nella propria vita”, ha rivelato Carlos Humberto Paredes, che definisce la Reggina e la città di Reggio “un qualcosa di speciale, difficile da spiegare a parole”.
Carlos Humberto Paredes si è raccontato in esclusiva ai microfoni di EuropaCalcio.it.
Emergenza Coronavirus. Pensi che si tornerà a giocare?
“Si deve pensare prima alla salute, poi a tutto il resto. Con tutto quello che sta succedendo è un po’ complicato fare delle previsioni, mi auguro che si ritorni alla normalità al più presto; tutti gli amanti del calcio vogliono tornare nuovamente allo stadio. Il calcio è una passione; adesso che sono allenatore, voglio tornare ad allenare la mia squadra”.
Quale squadra stai allenando?
“Adesso sto allenando una squadra in Serie B qui in Paraguay, si chiama Fulgencio Yegros“.
Come prosegue la tua quarantena?
“Questo periodo mi sta aiutando a migliorare il rapporto con i miei figli, che credo sia la cosa più importante. Come ben sappiamo, sia i calciatori che gli allenatori vivono la propria vita lontani da casa; la quarantena mi sta permettendo di riscoprire il valore della famiglia”.
Che ricordi hai della tua esperienza al Porto?
“E’ stata un’esperienza fantastica. Io giocavo nell’Olimpia, in Paraguay; andare in Europa abbastanza presto, a 24 anni, non è una cosa che capita a tutti. All’inizio è stato difficile ambientarsi, però grazie a Dio e a tutte quelle persone che hanno fatto il possibile per me, sono rimasto lì due anni. Due stagioni che ricordo con tanta felicità”.
Cosa significa essere allenati da Mourinho?
“Noi che facciamo parte del mondo del calcio siamo privilegiati; primo perché giochiamo a calcio e poi perché abbiamo l’opportunità di confrontarci con giocatori di qualità. Essere allenato da Mourinho è stato un orgoglio per me, ho appreso da lui tante cose positive che mi hanno aiutato non solo per giocare a calcio, ma anche per migliorare la qualità della vita; è stato molto importante nella mia carriera.
Voglio raccontare un aneddoto. Mourinho arrivò nel mio secondo anno al Porto, nella stagione precedente c’era Fernando Santos, l’attuale ct della Nazionale portoghese. Da tutti gli allenatori ho ricevuto qualcosa di significativo, però Mourinho mi disse una cosa importante che me la porterò fino alla morte: “Devi essere competitivo in qualunque cosa nella tua vita. Tu sei arrivato qui perché sei bravo, ma devi migliorare sempre; devi essere competitivo, devi vincere ogni giorno anche nelle cose piccole, devi prefissarti degli obiettivi”. E’ difficile arrivare a giocare in Europa, ma stare tanto tempo e fare una carriera buona non è così scontato”.
Cosa ha rappresentato per te la Reggina?
“Non è facile dire esattamente cosa rappresenta la Reggina per me, perché ho provato delle sensazioni davvero speciali, mi sono sentito a casa mia. Con questo non dico che nel Porto non sono ero felice, anzi: recentemente sono tornato lì a seguire dei corsi di aggiornamento per migliorare la mia esperienza di allenatore e mi hanno accolto davvero bene.
Giocare nell’Olimpia è stato speciale, così come nel Porto; però indossare la maglia della Reggina per 4 anni ed essere protagonista di tutto ciò che si è costruito in quegli anni è stato un qualcosa di più importante, che rimarrà per sempre nella mia testa e nel mio cuore, così come per la mia famiglia. In Portogallo è nato mio figlio, il primo; a Reggio mio figlia, quindi sono posti troppo significativi per me.
La città di Reggio è un po più sudamericana, mi sono identificato molto presto con la gente del Sud; mi ha colpito molto il loro modo di fare – sottolinea Carlos Humberto Paredes – mi hanno sempre trattato in modo amabile; mi sono adattato velocemente”.
Come è nata la trattativa che ti portò alla Reggina?
“Ero in ritiro con la Nazionale paraguayana, stavamo facendo la preparazione per il Mondiale del 2002. All’epoca eravamo allenati da mister Cesare Maldini; prima di un allenamento mi chiamo a sé: “Carlos vieni qua, voglio parlare con te”. Io non capivo bene l’italiano, però intuii cosa mi disse. “Ti piacerebbe andare a giocare in Italia? Perché c’è qualche squadra che ti segue e mi hanno chiesto le tue caratteristiche” mi chiese Cesare Maldini, e io subito gli risposi: “Sì, senza dubbio”. Il mio agente era Jorge Mendes che parlò con il presidente Foti e successivamente trovarono l’accordo per il mio trasferimento alla Reggina“.
La rete più bella che hai realizzato.
“Tutti parlano della rovesciata contro il Palermo, però per me tutte le reti sono state belle e speciali. Secondo me per la forma e il significato è stato un gol davvero notevole; siamo riusciti a pareggiare, abbiamo raccolto un punto che era molto importante per noi. E’ servito per la causa ed è stato bello, quindi è speciale”.
Stagione 2004-05, alla Reggina vi siete divertiti. Vittorie interne contro Juventus, Roma e Lazio e avete bloccato l’Inter sia all’andata che al ritorno sullo 0-0. Che ricordi hai di quell’annata?
“Credo che in quella stagione la vera forza era lo spogliatoio. Chiunque arrivava a Reggio in quel periodo sentiva il desiderio di aiutare la squadra e lo si vedeva in campo. C’erano tanti calciatori che avevano delle qualità tecniche importanti: Mozart, Nakamura, Tedesco, Bonazzoli, Ciccio Cozza, poi arrivarono Amoruso e Di Michele; era facile giocare con loro, era gente che sapeva giocare a pallone. La qualità, sommata alla grinta di ognuno di noi, aveva creato una squadra che non so se era forte, ma sicuramente era molto pericolosa”.
Perché ti chiamavano “El señor de la Mediacancha”?
“Non lo so (ride, ndr), è il soprannome che mi ha dato un giornalista paraguayano quando giocavo nell’Olimpia. Sinceramente non mi identifico con questo appellativo, ci sono tanti altri calciatori che lo meriterebbero più di me; sicuramente è una soddisfazione personale, vuol dire che già a quei tempi stavo facendo qualcosa di buono”.
Il compagno di squadra più forte con il quale hai giocato.
“Non è facile rispondere a questa domanda perché ce ne sono stati tanti, dalla Nazionale poi all’Olimpia, al Porto, alla Reggina, allo Sporting. Qualche mese fa sono stato in Portogallo a rivedere qualche compagno e ho rivisto Deco, ci lega un’amicizia molto forte; siamo andati a cena e abbiamo parlato di calcio, di famiglia – sottolinea Carlos Humberto Paredes – queste sono cose che resteranno sempre nella vita.
Per la carriera che ha fatto posso affermare che Deco è uno dei calciatori più forti con il quale ho giocato assieme a Mozart. In quel periodo Mozart meritava la Nazionale brasiliana perché possedeva una qualità eccelsa; ovviamente è il mio punto di vista, non ho il dono della verità assoluta. In una scala da 1 a 10, loro meritano 11.
Potrei aggiungere anche Chilavert, Arce, Ayala, Gamarra, Caniza, Acuna, José Cardozo, Santa Cruz; non riesco a trovare le parole giuste per rappresentare ciò che ha significato per me aver giocato insieme a loro. E’ una soddisfazione che mi porterò fino alla morte, i miei figli lo racconteranno ai miei nipotini”.
L’avversario più forte con il quale ti sei battuto.
“Sono tre i calciatori che mi hanno fatto aprire gli occhi ed esclamare: “Mamma mia, questi mi hanno fatto paura!”. Erano Zidane, Baggio e Pirlo. Ho giocato contro Zidane quando ero al Porto, in Champions League, era un calciatore fantastico; poi sono arrivato in Italia ed ho affrontato Baggio e Pirlo. Roberto era quasi a fine carriera; mi ha impressionato la sua velocità di pensiero: prima di ricevere la palla sapeva già cosa fare. Pirlo era simile a lui, però ha giocato prima più avanti e successivamente è stato arretrato”.
Quale allenatore è riuscito a farti rendere al meglio?
“Dovrei girare la domanda ai tecnici che mi hanno allenato (ride, ndr). E’ difficile dirne solo uno. Il mio primo allenatore è stato Luis Cubilla, tecnico uruguayano che è morto nel 2013; secondo me ha inciso per il 70% sulla mia formazione calcistica. Cubilla è stato essenziale per me in tutti i sensi. Qualcosa di importante l’ho ricevuto da tutti gli allenatori che ho avuto nella mia carriera: Almeyda, Markarian, Maldini, Mourinho, Mazzarri, Di Canio; ognuno di loro mi ha dato qualcosa ed io ho ricambiato nel migliore dei modi dando sempre tutto”.
Nel periodo in cui hai vestito la maglia della Reggina, c’è stato l’interessamento di qualche big italiana o europea nei tuoi confronti?
“C’erano sempre delle voci di mercato che uscivano sui giornali; non so se erano veritiere, però c’è stata qualche squadra importante. Ricordo che l’Inter era interessata a me, ma il mio agente non me l’ha mai confermato. In ogni caso, ero felice con la Reggina“.
74 presenze e 10 reti: come valuti la tua esperienza con la maglia del Paraguay?
“Poter giocare a calcio e rappresentare il tuo paese è qualcosa di indescrivibile per tante cose; innanzitutto per l’educazione che mi hanno impartito i miei genitori, sono cresciuto con un forte spirito patriottico, mio padre era un militare. Poter indossare i colori della bandiera del Paraguay è stato troppo importante per me: è un po’ come andare in guerra, però in senso sportivo; ero stato scelto tra tanti giocatori, sono andato in battaglia per il mio paese.
Un partita che ricordo con maggior piacere? Ai Mondiali del 1998 contro la Nigeria: vincemmo quel match per 3-1 e quella vittoria ci permise di qualificarci agli ottavi di finale. Precedentemente avevamo pareggiato con la Bulgaria e con la Spagna; il nostro era un gruppo troppo forte, veniva chiamato il “Gruppo della Morte”.
Dopo due pareggi avevamo bisogno di una vittoria per andare avanti, senza pensare ad un altro risultato. Giocammo una partita bellissima; quando tornammo in albergo, sentivo dentro di me una soddisfazione indescrivibile perché sapevo di aver dato tutto in mezzo al campo. In Paraguay erano soddisfatti per quello che avevamo fatto; è stata questa la cosa più bella che ho provato quando ho vestito la maglia della Nazionale. L’intero Paese era orgoglioso di quello che avevamo fatto per loro”.
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