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Da Redondo a Thuram, il senso indecifrabile del colpo di tacco

Redazione
calcio pallone

L’ultima settimana ha visto tornare alla ribalta un gesto tecnico da sempre portatore sano di meraviglia e stupore: il colpo di tacco. Una personale selezione di tre prodezze entrate nella memoria collettiva.

Prima Ndoye con il gol del pareggio contro il Napoli e il giorno dopo Marcos Thuram con il sublime assist nella serata di Monaco per Lautaro, hanno scritto due nuove pagine tra le numerosissime che affollano il gesto tecnico più impertinente e audace che si possa fare con il pallone ai piedi: il colpo di tacco o taconazo come è chiamato in Spagna.

La parte del piede apparentemente meno utile a colpire la sfera, rovescia camaleonticamente la vulnerabilità in letalità. Un gesto da impuniti, da simpatica canaglia alla Bruno Cortona, personaggio interpretato da Vittorio Gassman nella pellicola “Il Sorpasso” di Dino Risi, che in una scena del film inizia a camminare sulla verticale, a dimostrazione di come la realtà possa apparire migliore quando si sovverte il punto dal quale la si osserva.

Insomma dal tallone d’Achille, emblema dell’effimera idea di imbattibilità, al tallone da killer, espressione di verità involontaria pronunciata da un aspirante concorrente del Grande Fratello in un provino consegnato all’immortalità dalla Gialappa’s Band ormai vent’anni fa.

In principio fu Redondo: taconazo all’Old Trafford

In un colpo di tacco può esprimersi la voglia di andare oltre l’ostacolo personificato da un avversario in marcatura, come nel caso di Fernando Redondo durante il match  di ritorno tra Manchester United e Real Madrid, valevole per i quarti di finale della Champions League 2000/2001. Il risultato di 0 a 0 all’andata costringeva i Blancos alla vittoria nel fortino dello United, imbattuto da più di un anno tra le mura amiche.

Al minuto 53′, sul risultato di 2 a 0 per il Madrid, l’argentino Redondo, capitano delle Merengues, si trova in una situazione di apparente impasse sulla fascia sinistra, chiuso dal terzino norvegese Berg e da altri due Red Devils pronti ad accorrere, ma ecco materializzarsi la visione: un colpo di tacco che fa passare il pallone tra le gambe del malcapitato Berg e lancia Redondo sino al fondo del campo, dove serve un pallone che Raul deve solo spingere in porta per il 3 a 0 del Real Madrid. Il dribbling più geniale mai visto su un campo di calcio passerà alla storia come El taconazo, e la giocata nel Teatro dei Sogni sarà votata come la migliore nella storia del Real, in un sondaggio pubblicato da Marca nel 2020.

Il tacco di Dio, Amantino Mancini re di Roma per una notte

Dall’Argentina al Brasile, da Fernando Redondo ad Amantino Mancini.

Nella settimana che vede rinnovarsi l’incontro-scontro tra Roma e Lazio, immutabile come l’alternarsi delle stagioni, è impossibile non ricordare quanto accadde il 9 novembre del 2003 nel derby della Capitale, con la  Roma che vinse la stracittadina per 2 a 0, grazie alla rete del brasiliano Amantino Mancini che sbloccò il risultato al minuto 80′, con quello che venne ribattezzato come “Il tacco di Dio”.

Un derby destinato allo 0 a 0, non fosse stato per la punizione calciata furbescamente a mezza altezza da Cassano che trovò il colpo sensazionale di Mancini, capace di inserirsi tra i difensori laziali e di colpire al volo di tacco il pallone, insaccando alle spalle di Sereni. Istinto e divino mischiati in un atto altrimenti impossibile da pensare, che valse al brasiliano il soprannome di “Tacco di Dio” e un’esultanza incontenibile sotto la Curva Sud in delirio mistico.

Nemmeno a dirlo, il gol più bello nella carriera del brasiliano come da lui affermato in numerose occasioni.

Da Mancini a Mancini, Roberto e il tacco al Tardini

Per una curiosa fatalità, qualche anno prima del brasiliano era stato Roberto Mancini, con la maglia della Lazio, a mettere a segno un tacco beffardo in un derby contro la Roma. Un gol paradossalmente messo in ombra da una prodezza ancora più grande realizzata dall’ex CT della Nazionale, quando vestiva la maglia biancoceleste.

Il 17 gennaio 1999, in una fredda giornata invernale, si giocava la Tardini di Parma la sfida tra i ducali e la Lazio. In quella stagione la Lazio butterà via un campionato già vinto, sorpassato al fotofinish dal Milan di Zaccheroni, attardato di nove punti a sei giornate dal termine. In quel gelido pomeriggio emiliano, sul risultato di 1 a 1, al minuto 68′ da un calcio d’angolo di Mihajlovic esce fuori una traiettoria molto bassa ed esterna. Mancini va incontro alla sfera, colpendola con il tacco e trovando un disposto combinato di potenza e precisione che non lascia possibilità di appello a un giovane Buffon a difesa della porta gialloblù.

Una rete che a distanza di 26 anni mantiene inalterata la sua bellezza e irripetibilità, e che ha rappresentato il gol di tacco per antonomasia per una generazione, quella cresciuta tra anni ’90 e 2000, che si deliziava talmente tanto nel guardare quel gol dal riavvolgere senza pausa il nastro delle videocassette dei gol più belli del XX secolo.

Il tacco e l’illusione di un grande avvenire dietro le spalle

Altruismo e utopia, sfacciataggine e azzardo, nel colpire la palla con il tacco si cristallizza una potenziale gamma di caratteri che lo rende un gesto tecnico indecifrabile e al riparo da qualsiasi riforma moralizzatrice, come accaduto recentemente nel Brasileirao con l’introduzione del cartellino giallo per chi si posiziona con i due piedi sopra il pallone. Nel brevissimo campionario di episodi sopra elencati, in cui le assenze sono, come in ogni selezione arbitraria, innumerevoli, vi è però un unico comune denominatore: l’illusione realizzata, come nel titolo dell’autobiografia di Vittorio Gassman, che sia possibile un grande avvenire dietro le spalle.