In tutta onestà, Maurizio Sarri ha sempre preso le distanze dalla narrazione che lo vedeva protagonista di una (presunta) lotta proletaria contro il padrone.
Nel triennio napoletano, l’attuale allenatore della Lazio ha avuto il grandissimo merito di proporre un sistema di gioco fluido, dinamico, rapido, fatto di qualità, palleggio e possesso palla (perché il possesso esiste, non è un’invenzione…).
Una roba che in Italia, culla di Santi, Poeti e Contropiedisti, non si era quasi mai vista.
La differenza portata da Empoli all’ombra del Vesuvio era concettuale: si può arrivare a vincere (onestamente) per entrare nella storia, ma se ci riesci giocando bene entri nella leggenda.
La consacrazione di quella “Rivoluzione” sarebbe arrivata nel 2018, anno in cui gli azzurri persero la conquista dello Scudetto nonostante una classifica di tutto rispetto (91 punti). A breve sapremo, tramite la Giustizia, quanto la gestione societaria della Juventus influì anche sui risultati sportivi di quella stagione, ma è un’altra storia.
Prima di Spalletti, insomma, solo Sarri era riuscito a rendere pronunciabile il termine “Scudetto” in una città ancora troppo scaramantica o scottata dal recente passato calcistico. Era il Comandante del bel gioco, della voglia di riscatto, studiato nelle scuole calcistiche di mezza Europa, simbolo della parabola onirica che vedeva l’impiegato di tutti i giorni partire al basso, dalle categorie inferiori, per poi riuscire a scalare la società e raggiungere i vertici del calcio. In definitiva, il Comandante della Rivoluzione.
Le esperienza successive (Chelsea, Juventus, Lazio) devono aver fatto scattare qualcosa nella mente del tecnico toscano. Gli uomini a disposizione probabilmente non gli garantivano la continuità tattica vista a Napoli, vuoi per mancanza di disponibilità (il suo è un gioco dispendioso in termini di energie) vuoi per differenze tecniche (anche se il tasso tecnico di Chelsea e Juve era decisamente superiore rispetto a quello degli anni di Napoli). Ma tant’è, Napoli-Lazio di venerdì scorso a Fuorigrotta ha sepolto definitivamente quella parte di narrazione legata al c.d. “Sarrismo”.
Maurizio Sarri dalla “Rivoluzione” alla “Restaurazione”
L’essere umano difficilmente riesce a mettere in discussione il proprio credo quando esercita l’odioso esercizio di attaccare un’etichetta, uno stereotipo, ad una persona. Nel caso di Sarri, allenatore bravissimo (giova ricordarlo), è diventato impossibile sradicare il concetto di estetica legata al calcio.
Quanto letto nel post gara con la Lazio ha del surreale: i biancocelesti hanno vinto e siamo pronti a scommettere che, se si fosse trattato della Salernitana, la critica avrebbe denunciato l’atteggiamento totalmente remissivo dell’avversaria del Napoli.
La Lazio ha giocato costantemente dietro la linea della palla, ha tentato un paio di ripartenze mal riuscite, ha piazzato una linea di 7 uomini davanti al portiere mentre gli altri 3 aggredivano Lobotka in uscita.
Tradotto in soldoni, difesa e contropiede, ossia ciò che i cronisti nazionali amanti dell’estetica hanno sempre condannato. Tuttavia, trattandosi di Maurizio Sarri, sono venute fuori analisi impeccabili del “Maestro”.
Sentite qui: abile come nessuno a stringere difesa e centrocampo, intuitivo nel bloccare le linee di passaggio, unico nell’alzare la pressione su Lobotka. Genio perché ha disinnescato Kvara portando sempre l’esterno a raddoppiare, studioso accademico per la mossa di stritolare Osimhen tra i centrali e così via.
Senza mai ammettere la cosa più semplice del mondo: l’atteggiamento remissivo (rispetto al concetto di proposizione di gioco) ha funzionato. Rinunciando al gioco ha fermato il Napoli, costringendolo addirittura al ko. Ma nulla a che vedere con il “Comandante della Rivoluzione”.
Con la vittoria della sua Lazio, è stato consacrato il ritorno all’Ancien Regime. Maurizio Sarri è passato dalla Rivoluzione alla Restaurazione.
Con buona pace di chi a Napoli, in cuor suo, guarda le partite della propria squadra del cuore con il supporto dell’ossigeno dal 2018.